Testimonianza di Carolina Tana raccolta da Monica Piccini, Gioia, n. 18, 7 maggio 2015
So che faccia ha mio padre dagli articoli di cronaca che negli anni hanno seguito la nostra inquietante vicenda. L’ultima volta di persona è stato, a 12 anni, in un’aula di tribunale. Vent’anni fa. Seduti alle mie spalle, da una parte mia madre e il suo nuovo compagno (feci il mio ingresso tenendoli per mano, assurdo!), e dall’altra mio padre con l’avvocato. Per cinquanta minuti, come un soldatino telecomandato, ho ripetuto le accuse con cui mia madre mi ha riempito la testa da quando (avevo quattro anni) mio padre se ne andò di casa chiedendo la separazione da una donna manipolatrice e ossessiva (ma questo l’ho capito dopo). Mio padre, signor giudice? Un mostro, un verme, un pedofilo capace di abusare sessualmente di sua figlia piccola. Durante la testimonianza il cuore mi batteva così forte che credevo si sentisse. Anche se deporre il falso, per quanto riprovevole, era sempre meglio che avvicinarmi a mio padre e sputargli in faccia. Così come, pilotata da mia madre, feci prima di uscire. Non potrò mai dimenticare il suo sguardo, tra l’inerme e l’incredulo. Invece di buttargli le braccia al collo e scoppiare a piangere, guardai mia madre e il suo ghigno soddisfatto. Avevo fatto il mio dovere di figlia “robot” (secondo la diagnosi degli assistenti sociali).
Nel marzo 2015 Carolina Tana ha partecipato alla trasmissione televisiva Mattino Cinque, rilasciando una intervista in cui ribadisce di non riuscire a capire come sia accaduto che si sia lasciato l’affido della figlia ad una madre così problematica. Il video si può vedere su Facebook:
Purtroppo, dopo quella diabolica recita in tribunale, mia madre si aggiudicò il diritto di portarmi via con sé, da Roma a Milano, ostaggio suo e del suo nuovo compagno, un ricco industriale vicentino che per lei aveva venduto l’azienda di famiglia. Per più di dieci anni abbiamo fatto una vita che a raccontarla ora sembra inventata, tra lussi eccessivi e violenze domestiche, in bilico sulla catastrofe. Abitavamo tra la Costa Azzurra, la Svizzera e Londra, in ville che compravamo per poi rivenderle. Oppure in alberghi deluxe in cui arrivavamo a bordo di auto sempre più costose. Sembravamo una famiglia felice, invece nascondevamo segreti (compresi due bambini, maschio e femmina, arrivati in casa neonati) su cui le forze dell’ordine non si sono mai prese la briga di indagare. In una di quelle suite, al telegiornale in tv, vidi mio padre sanguinante su una barella, gambizzato nel parcheggio del circolo Canottieri Aniene, la sua seconda famiglia. Mia madre fu accusata come mandante (e poi assolta in appello). Quelle immagini furono uno choc per me. E per la prima volta a 14 anni pensai di scappare. Prima di allora non mi ero lamentata troppo della mia vita. Non ne immaginavo altre possibili.
In seguito ho tentato molte volte la fuga fino a quando, ormai ventenne, sono ridel palazzo dov’ero nata e dove mio padre ancora viveva, un giorno di dieci anni fa ho suonato il campanello di casa. Ho visto lo spioncino farsi nero, segno che dall’altra parte c’era qualcuno, lui. «Papà sono io, Carolina», ho detto. Ha cominciato a urlare che, se non me ne fossi andata, avrebbe chiamato la polizia. A quel punto ho fatto un passo indietro davanti al suo dolore, ho solo aggiunto: «Papà basta polizia. Vorrei solo abbracciarti!». Da allora è stato sempre silenzio, a parte il libro scritto da lui, Il buio negli occhi, uscito un anno fa, in cui racconta la sua storia chiamandomi “Palletta”, come quand’ero bambina. Ora, dopo un percorso di psicoanalisi, ho deciso di scrivere anch’io la mia versione dei fatti, sperando che possa un giorno perdonarmi. So di averlo quasi ucciso dal dolore, mio malgrado. Adesso però Giuro di dire la verità, nient’altro che la verità: è il titolo del mio libro, pubblicato da Alpes Italia. E questa volta, papà, l’unico da cui vorrei esser creduta sei tu.uscita a denunciare mia madre e il suo compagno per i gravi maltrattamenti ai danni della mia sorellina acquisita, tenuta legata al buio e in solitudine. Ora sono entrambi in carcere, anche per aver ricattato, nel 2007, i coniugi inglesi McCann dopo la sparizione della figlia, la piccola Maddie, in Portogallo. Solo sapendoli dietro le sbarre mi sono sentita finalmente libera. Libera anche di scrivere a mio padre, che non avevo mai più visto. Peccato che il suo avvocato mi disse che non desiderava ricevere le mie lettere. Era stremato dall’ultimo scandalo, il libro La bugiarda. La violenza di un padre, la violenza della legge, fatto pubblicare da mia madre nel momento in cui mio padre stava recuperando un po’ di credibilità. «Avevo quattro anni la prima volta…»: cominciava così e io, Carolina T. (il cognome, da minorenne, era meglio non scriverlo), ne ero l’autrice, sulla copertina c’era il mio nome. Io, il burattino di mia madre. Mio padre querelò tutti e ne ottenne il ritiro. Nel 1996 è stato infine assolto da tutte le accuse. Ma non mi ha mai voluto incontrare.
Fonte/Credits: Gioia, n. 18, 7 maggio 2015







